Ero una nobildonna anglosassone. Forse una leggenda o, come vuole il significato del mio nome, un “regalo di Dio’’. Bella e casta, convinsi il mio re a costruire un monastero, e a essere benefattori di altri conventi. Un giorno qualcosa cambiò, il re divenne avaro e decise di infliggere al popolo tasse molto alte, che non potevo sopportare. “Darò ascolto alle tue richieste se cavalcherai nuda le strade della città sul tuo cavallo Golia”, disse, esasperato dalle mie suppliche. “Se questo atto serve a lenire le sofferenze del popolo, lo farò” gli risposi. Preso in contropiede accettò, ma annunciò che durante il mio passaggio nessuno avrebbe dovuto rivolgere lo sguardo verso di me, ma che al contrario tutti si sarebbero dovuti rinchiudere nelle proprie abitazioni, pena la cecità.
Mi preparai per la penitenza e senza una veste addosso, solo con i miei lunghi capelli a coprire il corpo, montai sul mio cavallo Golia. Lungo le strade e le vie del mercato regnava un silenzio tombale, mentre accecante era il sole della tarda mattinata. A un certo punto non sentii più il rimbombare degli zoccoli del mio cavallo sul selciato, e spostando il mio sguardo dal cielo a terra mi accorsi che la strada era ricoperta da un tappeto di rose bianche e mirto, orchidee selvagge e fiori di campo, frutti rossi, fichi e more. All’improvviso mi apparve davanti un giovane il cui nome, scoprii solo più tardi, era Tom. Tom si inchinò davanti a me, dicendo: “Voglio onorare la tua bellezza e il tuo coraggio e non ho paura di guardarti negli occhi”. Un moto di risentimento mi attraversò la mente: come osava questo popolano sfidare il decreto del re, del mio re, e guardarmi così impunemente? Ma presto il fastidio si placò, al pensiero che questo giovane aveva sfidato la sorte solo per rendermi omaggio con quel tappeto floreale e con le sue parole.
E insieme alla commozione si fece strada nel mio cuore una sensazione nuova, fatta di eccitazione e desiderio. Scesi da cavallo e sentendo sotto i piedi nudi la morbidezza dei fiori profumati mi avvicinai a lui. Quel giovane ruvido e prestante, sudato sotto l’opprimente calore del sole, mi strappò dalla bocca parole che mai avrei pensato di poter pronunciare: “Avvicinati a me, nessuno ci vede. Voglio sentire il tuo corpo cocente scaldare il mio, freddo per questa cavalcata”. La sua risposta non si fece attendere: “Eccomi, meravigliosa leggenda: il tuo corpo è splendido e merita carezze. Se oggi è il mio ultimo giorno di luce, voglio che il mio ultimo bagliore sia emanato dal tuo corpo. Il mio sesso brama il tuo”.
Mi avvicinò a sé e sdraiandosi supino mi trascinò sul suo corpo, facendomi montare a cavalcioni su di sé. Si slacciò i calzoni e mi penetrò all’istante, continuando con le mani a toccare le mie labbra e il mio clitoride. Fui assalita da un piacere completamente nuovo, e lo cavalcai con la furia che mai avevo riservato a nessun uomo. Il nostro orgasmo esplose quando il sole raggiunse il suo punto più alto, e ci lasciò stremati e abbandonati in quella strada vuota e silenziosa.