Ieri sera mi ha raggiunta a casa poco prima di cena, “proviamo qualche posticino nuovo per fare aperitivo”, ci eravamo detti. Invece, di nuovo, abbiamo provato altro. Uno sguardo insistente l’uno nell’altra, una spoliazione lenta, quasi sacrale, ma soltanto visiva: il corpo voleva di più, più di qualsiasi altra cosa avesse provato fino ad allora. Mi sono ricordata del paddle custodito nell’ultimo cassetto del comodino: piccolo, rigido, squadrato e così malizioso con quella figura di donna china sul davanti e pronta a ricevere il suo primo colpo con quelle sue labbra sensualmente socchiuse.
È stato un lampo, in lei, subito, ho visto il mio riflesso. Ancora vestita, l’ho preso per mano e l’ho portato ai bordi del letto, mi sono voltata ed appoggiata sul letto sollevandomi i lembi del vestito già corto. Sentivo su di me i suoi occhi rapaci, percepivo il potere delle mie autoreggenti. Io ero la donna del paddle e lei era me. Forse Claudia, il suo nome. La stessa Claudia che scatena le più torbide fantasie maschili in quel famoso romanzo di Manara. Il primo colpo è stato timido, temeva di farmi male, poi la forza è aumentata al passo dei gemiti. Il lieve bruciore del colpo lasciava spazio al sollievo e dolore e piacere si compenetravano senza poter distinguere l’uno dall’altro. Io non ero più io, ma la fantasia di ogni uomo. Quei colpi secchi, così sicuri, definiti e allo stesso tempo delicati, hanno acceso la nostra immaginazione, da quel momento irrefrenabile. Ora il paddle, con quella sua consistenza così deliziosamente morbida e voluttuosa, è ritornato nel cassetto, per quando vorrò essere Claudia, ancora una volta.